Walter Mendizza – Negazionismo demagogico della malattia mentale
In un articolo precedente dicevamo che una della più clamorose leggi che furono scritte soltanto per produrre consenso ma che invece hanno solo causato disastri, morti, feriti e vittime in generale, è stata la legge 180/1978 detta Legge Basaglia (anche se il relatore e primo firmatario della Legge fu il deputato Bruno Orsini). Questa legge sostituiva una del 1904 di gran lunga più garantista, ma siccome i manicomi erano il simbolo del degrado, si pensò che bastasse cambiare la legge per cambiare la realtà, e così si sgravò di ogni responsabilità giuridica l’intero sistema utilizzando lo stratagemma della negazione della malattia. Fu un sociologo canadese, Erving Goffman, (1922-1982) uno dei padri del pensiero basagliano, che nella formulazione della sua teoria sociale arrivò a teorizzare che tutti coloro che pensavano che la malattia mentale esistesse per davvero o che fosse frutto di un danno cerebrale (cioè la quasi totalità delle persone di buon senso e degli psichiatri dell’epoca) erano i veri disturbati psichici giacché facevano parte di un delirio diffuso.
In questo clima dottrinario, irriducibile e intransigente prese il via un grande lavoro di ipnosi collettiva: quello di creare e diffondere l’opinione che la psichiatria si occupa delle anomalie dell’individuo causate dalle anomalie della società; e che lo psichiatra è un terapeuta che interviene su tutto ciò che la società rifiuta come non appropriato o non conforme ai suoi scopi causando la malattia mentale (o il disagio come usano dire i basagliani.
Scopo di questi articoli sulla psichiatria è sottolineare la drammatica e funesta prospettiva ideologica di tutto l’impianto legislativo (cioè la negazione della malattia mentale) e mettere in risalto come con questa tragica prospettiva si rivendicò una terapia esclusivamente sociale o socio-ambientale generando una distorsione senza precedenti tra le persone che dovevano farsi carico dei malati di mente e i teorici paciughi del nulla che sapevano raccontarla bene affascinando verbalmente una società buonista e ipocrita ammaliata dalle parole e dal desiderio di sbarazzarsi del problema dei matti e delle condizioni rovinose in cui vertevano.
Fu una sorta di “not in my back yard”, anzi fu il nostro secondo “nimby” della storia, un “non nel mio giardino” che significava lottare contro il degrado istituzionale dei manicomi a condizione però che i matti stessero lontani, cioè che se li sorbissero gli altri. Dico secondo nimby perché il primo fu la rovinante legge della senatrice Merlin che abolì le case di tolleranza in nome del solito e ipocrita buonismo d’accatto che soppresse sì le case chiuse, però lo fece al costo sociale di spingere le donne sui marciapiedi preda dei magnaccia e contagiate dalle malattie che trasmettevano. Anche con i malati di mente si applicò lo stesso ragionamento semplificato: la realtà è sgradevole? Allora si nega la realtà attraverso la sconfessione del nome e come per incanto scompare anche il problema. Paradossalmente mentre Basaglia tentava di riportarci i malati in casa, facendo della psichiatria un temibile “funzionario sociale”, gli italiani beoti e ignari di quanto stava accadendo, plaudivano annuendo al disegno socio-ambientale e pensando che tanto non sarebbe toccato a loro di averli vicino.
Nel suo libro “Oltre l’utopia basagliana” Adriano Segatori racconta di una intervista effettuata per L’Europeo il 12 maggio del 1984 da Giampiero Mughini (dal titolo Una legge da matti) a uno dei grandi esponenti del Partito Comunista, Antonello Trombadori, che usò parole di fuoco contro la 180: “Non avevo capito il suo carattere. Come al solito, mi fidai delle decisioni del mio gruppo parlamentare, (…). L’ho capito quando la malattia mentale è entrata nella mia famiglia (…). Non avevo capito che il sinistrismo potesse arrivare ad alterare il mestiere di medico”. E a riguardo del fanatismo di certi medici dice: “E di questi fanatici che sono entrati nel PCI perché giudicavano che potesse anche servire per la carriera ce ne sono stati (…) khomeinismi sostenitori dell’intoccabilità della 180: dei dogmatici che rifiutano il principio della verifica e della sperimentazione pur di salvaguardare l’intangibilità di un disegno ideologico secondo una concezione mostruosa che la 180 ha dell’uomo e della società. Quello dei fautori della 180 è uno sbarramento terroristico a una ponderata analisi della situazione, è una mostruosa indifferenza ai casi concreti, alla vita come si manifesta, terribile e disperata (…). I basagliens devono essere sconfitti. Liberiamoci dai dogmatici e ascoltiamo le persone serie di tutt’e due i campi. E’ il caso di finirla con questa demonizzazione, cui ci ha abituato la 180, di ogni forma di privato (…) Se la riforma non dovesse riuscire riterrei i responsabili di questo affossamento dei veri e propri assassini. E se c’è qualcuno che ci sta già pensando, lo considero fin d’ora un assassino”.
Non c’è da aggiungere nient’altro. L’intervista si spiega da sé. Sono le parole di un comunista che però aveva capito che cosa significasse vivere con un malato di mente. E l’aveva capito sulla sua pelle quando gli toccò il caso in famiglia, facendo emergere il lato dimenticato e distorto del movente politico che determinò la velocissima approvazione in sole 3 settimane della legge. Il movente politico era in qualche modo la ripresa del mito novecentesco dell’”uomo nuovo”, obiettivo ultimo del comunismo che da lì a una decina d’anni sarebbe imploso ma che prima di crollare emetteva i suoi canti del cigno, e alcuni di essi talmente forti che ancora oggi riecheggiano nell’aria.
La retorica basagliana ha come obiettivo ultimo il potere di fatto e non di diritto (potere che è potentia non potestas). La genialità di Basaglia fu capire che questo obiettivo poteva attuarsi nella psichiatria anche con un accurato modello sociale da contrapporre al modello terapeutico tradizionale e soprattutto con un lessico scrupoloso, attento e preciso. La cura medica si trasformava in integrazione sociale così come il trattamento individuale diventava azione sociale mentre l’intervento sulla persona doveva tradursi in modificazione dell’ambiente e il malato era solo un disturbato che non doveva essere curato ma riabilitato. Cosicché la politica sanitaria era politica sociale e in definitiva cambiamento sociale. Con il passaggio della malattia mentale al mondo sociale si praticava un radicale stravolgimento della prospettiva capitalista incamerando quel carattere rivoluzionario che si concretizzava nella deresponsabilizzazione della nuova psichiatria e di chi si riconosceva in essa (nascita di psichiatria democratica). La deresponsabilizzazione avvenne con l’abrogazione degli artt. 714, 715, 717 del codice penale che punivano l’omessa custodia dei malati di mente e l’omessa denuncia.
Il vero liberato non fu il malato ma lo psichiatra e la conseguenza fu la riduzione del suo lavoro a scapito di una contingente gestione amministrativa dei pazienti che nel frattempo diventarono “utenti”. In pratica si transitò dalla cura medica al trattamento sociale tramite la cronicizzazione dei malati. E con il modello sociale nascente si passò al loro trattamento di massa alla stessa stregua di un pastore con le sue pecore. Come per ogni business, non appena si vide che il modello funzionava fu necessario farlo crescere, ed ecco apparire all’orizzonte assieme ai malati veri, anche quelli border-line, quelli con qualche disturbo della personalità, i vecchi con l’Alzheimer, ecc.
Quindi la faziosa gestione del potere economico e politico fu rivendicato con lo strumento politico della negazione della malattia mentale e si mantiene tuttora in vita grazie alla demagogia, alla contraffazione intellettuale, alla autoreferenzialità rinforzata e protetta nonché al rifiuto di ogni critica, alla negazione di ogni confronto, a una seducente scelta del linguaggio, a una apologetica credibilità, all’esaltazione di una sola verità. Conseguenze, queste sì, che rasentano la falsificazione paranoica.
Come con le religioni nascenti, l’impostazione teorica di questa metodologia partiva da un totem, una nuova divinità oggetto di culto: la dogmatizzazione degli assiomi basagliani. Fu così che nacque il movimento antipsichiatrico come ideologia, i cui aderenti di fronte alle critiche e alla messa in questione dei loro fondamenti sono usi attaccare con scomuniche e anatemi apostrofando di “fascista” i loro detrattori o etichettandoli come portatori di interesse delle lobby farmaceutiche.
I seguaci del basaglianesimo ripudiano il confronto con pensieri non allineati alla loro visione accusando chi li contesta di oscurantismo reazionario. Chiunque voglia una prova di ciò, vada a vedere la pagina su YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=maJoifZfJ1k dove in una recente assemblea pubblica non appena si capì che si contestava il feticcio basagliano la persona che aveva preso la parola venne allontanata a suon di fischi e di spintoni al grido di “fascista”. Ma come? Non lo lasciano parlare e in più gli danno del fascista? Evidentemente il mondo basagliano gira alla rovescia.
La verità è che per questi psicolatri khomeinisti, il tempo si è fermato a 35 anni fa, quando cavalcarono (giustamente) la critica alla feroce crudeltà manicomiale e al segregazionismo psichiatrico. Ma da allora, da quando presero quel potere e divennero la chiesa vincente, la religione di stato, nulla più può essere toccato. Tutti i progressi farmacologici vengono rigettati, anche se il mondo va avanti noi siamo fermi al 1978. Le moderne ricerche scientifiche in campo neuro-fisiopatologico non vengono prese in considerazione e neppure i cambiamenti sociali fanno parte di una valutazione più approfondita e rigorosa. Si riempiono la bocca di “diritti umani”, di “cambiamento sociale”, però rifiutano il principio della verifica e della sperimentazione pur di salvaguardare l’intangibilità del loro disegno ideologico.
La distorsione paranoica che emerge da questa impostazione ideologica è la totale irrealtà e mistificazione di un procedimento che è antiscientifico, pseudoculturale e volutamente antirazionale. Tanto che neppure nella vicinissima Yugoslavia (Trieste e Gorizia vi confinano) d’ispirazione comunista gli indirizzi della nostra legge furono mai recepiti. Nonostante i tentativi di esportazione del modello, nessun Paese europeo lo vuole. Qualche motivo ci sarà pure, no? Perché i basagliani non rispondono a questa semplice domanda? Anzi, come mai in Italia stessa la riforma è applicata parzialmente? Perché ci sono regioni che non ne vogliono sapere niente dei ridicoli metodi antiscientifici e visionari di Basaglia? E come mai se il disagio psichico fosse davvero il risultato di un malessere sociale prodotto dai paesi industrializzati o simbolo di una società ingiusta, lo si trova invece in tutte le latitudini e in tutte le culture, incluso quelle primitive?
Concludo con un pensiero di Vittorino Andreoli che scrive nel suo libro I miei matti. Ricordi e storie di un medico della mente: “Affermare che la malattia mentale non esiste, e che la pericolosità del malato deriva da un’invenzione borghese sono solenni idiozie”. Ecco, appunto.
Un esempio dell’irrazionalità della legge 180? Il Tso (trattamento sanitario obbligatorio) viene previsto quando sussite una condizione psichica che neccessita un trattamento sanitario URGENTE, però nello stesso tempo stabilisce che per farlo ci vogliono due medici (di cui almemo uno del servizio sanitario che convalida la proposta del primo) e la firma di convalida del sindaco che però normalmente non può ARRIVARE PRIMA DI UNA GIORNATA (specialmente a ridosso del week end). Risultato : non si può procedere in urgenza a meno che non vi sia pericolo imminente di vita per il soggetto o per altri (nel qual caso subentra lo stato di neccessità). Quindi, sempre per fare un esempio concreto, il malato con crisi maniacale non viene trattenuto, se ne va, dilapida il proprio patrimonio, magari va in crisi depressiva e si suicida ecc. Solo un’esempio..