Il rispetto dell’altro
IL PICCOLO (Trieste) 01/09/2013 – Il rispetto dell’altro
Se io fossi Piergiorgio Welby, e fossi ancora vivo, scriverei al dottor Gabrielli per dirgli che io sono un essere umano e che la mia richiesta di staccare il respiratore era una rinuncia legittima alle cure, prevista dalla Costituzione. Se io fossi Mina Welby scriverei al dottor Gabrielli che io sono un essere umano e che l’avevo fatto attaccare io a quel respiratore, contro la sua volontà, perché in quel momento non accettavo l’idea di separarmi da lui. Se io fossi Eluana Englaro, e fossi ancora viva, scriverei al dottor Gabrielli per dirgli che io sono un essere umano e che le mie volontà di rifiuto di trattamenti sanitari erano legittime, anche se mio padre ha dovuto lottare molto a lungo per legittimamente affermarle e farle rispettare.
Se io fossi Beppino Englaro scriverei al dottor Gabrielli che io sono un essere umano e che solo l’amore per mia figlia e per il diritto di tutti gli altri esseri umani mi hanno sostenuto durante la mia battaglia giudiziaria. Se io fossi Mario Monicelli, e fossi ancora vivo, scriverei al dottor Gabrielli per dirgli che io sono un essere umano e che l’assenza di una legislazione rispettosa della mia autodeterminazione mi ha costretto a buttarmi da una finestra. Ma sono solamente Rita Cian e dunque scrivo a tutti per dire che trovo vergognoso che il dottor Gabrielli abbia classificato le storie di Piergiorgio, Mina, Eluana, Beppino, Mario e di tanti altri, come pubblicità.
È una modalità di ragionare che non solo non mi appartiene, ma che rifiuto. E che si discosta assai dalle sagge parole del cardinale Martini nel suo celebre scritto “Io, Welby e la morte”, dove il rispetto dell’altro e delle sue convinzioni, insieme alle certezze sempre accarezzate dal dubbio, sono la base fondamentale per un dialogo sul fine vita che non sia ideologico.
Rita Cian
________________________________________________________________________________________
L’INTERVENTO DI Marco Gabrielli (IL PICCOLO 29/08/2013)
La morte nella sofferenza, bugia utile a chi si batte per l’eutanasia
Ci troviamo davanti a militanti che coprono bene l’odore della morte parlando di libera scelta. Rischiamo di “copiare” dall’aborto, ormai pura routine.
Siamo nel pieno di una campagna in favore dell’eutanasia: dopo anni di pubblicità unidirezionale su alcuni casi limite siamo arrivati alla raccolta di firme per la sua legalizzazione. Il tutto abilmente condito da dati statistici non confermati (nessuno studio scientifico è mai stato commissionato su larga scala per conoscere l’effettiva opinione degli italiani) e portando casistiche poco credibili e comunque non confermabili quali quelle relative alla cosiddetta “eutanasia clandestina”. Ci troviamo davanti a militanti che sanno coprire bene l’odore della morte parlando di libera scelta, di sofferenze evitate, di dignità della vita e di libertà fino alla fine, ma tacciono su cosa sia l’eutanasia, intesa anche come suicidio assistito e abbandono terapeutico, e a cosa potrebbe portare la sua legalizzazione soprattutto in un momento di grave crisi economica che porta ai tagli alle spese sanitarie. Facile l’analogia con precedenti campagne quali quella in favore dell’aborto.
Chi si sarebbe mai aspettato che in 35 anni in Italia quasi sei milioni di bambini non sarebbero nati perché uccisi legalmente nell’utero materno con la legge 194/78? E dire che solo una minima parte dei bambini abortiti fa parte dei “casi limite” tanto pubblicizzati in occasione del referendum del 1981. Se viene meno un principio, tutto crolla. L’aborto è ormai un fatto routinario perché la vita di un feto non è più considerata un valore con tutte le conseguenze che non sempre si hanno presenti: si è smesso di cercare soluzioni alternative in termini di aiuti, anche economici, ai genitori; si è smesso di ricercare terapie in grado di trattare eventuali patologie fetali; è venuta meno una rete di solidarietà in grado di aiutare le madri e le famiglie a cui fosse capitata una “gravidanza indesiderata”. L’aborto è considerato la soluzione migliore: non sarà “obbligatorio”, ma è “fortemente consigliato” e, in assenza di aiuti concreti, come quelli erogati dal volontariato, non lascia spesso alternative. Dall’aborto all’eutanasia. Perché continuare a ricercare cure quando c’è una via diversa? Perché dovrebbe continuare a vivere una persona quando un’altra affetta dalla stessa malattia ha deciso di morire?
Meglio: perché lo Stato dovrebbe continuare a pagare cure per chi ha l’eutanasia come alternativa? Il passo che porterà a chiedere l’eliminazione di tutte le vite “non degne di essere vissute” è brevissimo. Lo abbiamo già visto in un triste passato che ora cerchiamo di dimenticare. Lo vediamo quotidianamente con l’aborto eugenetico. Dai Paesi europei in cui già è legale l’eutanasia giungono notizie allarmanti. Per brevità accenno solo all’estrema facilità di accesso al “suicidio assistito”, alla sospensione delle cure per i pazienti più anziani o affetti da un elenco crescente di patologie, all’eutanasia del non consapevole, agli errori diagnostici e alla sempre più diffusa “eutanasia pediatrica”. Non è cosa esclusiva dei cristiani riconoscere che è insito nell’uomo quell’istinto di sopravvivenza che ci accomuna agli animali e che eliminiamo solo facendoci violenza. In più l’uomo, con la ragione, dovrebbe riconoscere la vita come valore assoluto. Non può essere dimenticata tutta quella serie di relazioni che danno scopo e dignità alla vita, anche se questa attraversa momenti difficilissimi ed è particolarmente fragile, vulnerabile, dipendente e, per questo, richiedente aiuto e sostegno. Voler eliminare con la morte queste fasi fa venir meno l’umanità di chi soffre e di chi accompagna nella sofferenza. Accompagnare non è semplice, ma sicuramente più umano che sopprimere. Non è detto che si debba per forza soffrire, accusa gratuita che viene spesso rivolta verso la chiesa cattolica: già nel 1957 papa Pio XII precisò che è da ritenersi moralmente lecita una terapia antidolorifica anche se, al fine di alleviare i dolori, di fatto abbrevia la vita. Insegnamento ribadito anche nel catechismo della chiesa cattolica, che pure vieta espressamente l’accanimento terapeutico. La “morte imposta nella sofferenza” dai cattolici è una menzogna pretestuosa di chi si batte per la legalizzazione dell’eutanasia.