Le ragazze in piazza per l’Iran «Dobbiamo lottare per vivere»
Anahita: «Vogliamo tornare libere come lo sono state le nostre nonne»
Dai manifestanti il racconto delle brutalità commesse dalla polizia morale
Serena Riformato /Roma
Niusha ci traduce il coro in farsi con cui poco prima guidava il corteo: «Non siamo puttane, siamo donne libere, il problema è nei vostri occhi». Nelle università iraniane lo slogan viene urlato all’indirizzo dei guardiani della morale che quotidianamente presidiano ogni entrata per ispezionare l’abbigliamento delle ragazze. «Il primo giorno in facoltà mi hanno mandato a casa perché non indossavo “calze appropriate”, eppure avevo i pantaloni lunghi». Niusha ha 25 anni e studia Architettura. Quando le chiediamo se c’è qualcosa di diverso nella generazione, la sua, che ha dato inizio alle rivolte, non ci pensa molto: «Non abbiamo più niente da perdere». Non parla solo di diritti, ma anche di prospettive economiche: «A Roma lavoro in un negozio e devo essere io a mandare i soldi a mia mamma in Iran nonostante sia stata un’infermiera per 30 anni».
Con serietà aggiunge: «Se non lottiamo, non avremo ragioni per vivere, non ci spaventa scendere in piazza e morire».Niusha è sicura che una volta tornata in Iran, sarà arrestata per il suo attivismo politico degli ultimi mesi. Anche se ha protestato qui, in Italia, in Europa: «Conosco due persone che da Roma sono tornate a Teheran e sono state arrestate appena atterrate all’aeroporto, sono in prigione». Non si è mai troppo distanti dagli occhi del regime. «Ci spiano, sono quelli con le barbe lunghe qui anche oggi, ci fanno le foto», dice Anahita, studentessa di Farmacia.Tanti nel corteo, organizzato dal Partito radicale, indossano le mascherine per questo. Chi è qui, chi urla gli slogan “Morte al dittatore” e “Assassino Khamenei” sa che non rivedrà presto a casa. «Tornerò dopo la rivoluzione», promette Anahita. Non è l’unica a usare questa formula, «dopo la rivoluzione», con l’ottimismo di chi sottintende che un altro Paese verrà poi, un Paese diverso.
Anahita ci dice: «Ho 22 anni come Mahsa Amini, la ragazza uccisa perché non indossava bene il velo». Il meccanismo di identificazione è tutt’altro che astratto. «A 17 anni sono stata arrestata dalla polizia morale per due volte perché i miei capelli non erano coperti dall’hijab», racconta. In prigione ha conosciuto la violenza degli estremisti: «Mi ripetevano: “sei una puttana, non vali niente”». Se non è stata torturata o addirittura uccisa come Mahsa è stata solo buona sorte: «Sono stata fortunata, i miei genitori hanno pagato una grossa cifra e sono stata liberata dopo poche ore».
Vaji Hosseini non vive in Iran da anni, ma ancora ricorda bene: «Quand’ero adolescente, la polizia morale chiedeva alle donne di togliersi il rossetto con batuffoli di cotone in cui nascondevano delle lame». Perché il vaso è traboccato ora? «I nostri genitori sanno di non essere stati abbastanza coraggiosi – è ancora la voce di Anahita – ma ci hanno cresciuto perché lo fossimo più di loro». Poi c’è il mondo là fuori impossibile da nascondere: «Quand’ero bambina sognavo di essere come i teenager americani», aggiunge la studentessa 22enne. Ma non è questo, non solo: più potente del modello occidentale è la memoria quiescente della libertà vissuta in Iran prima della Rivoluzione Islamica. Vivida negli album di famiglia: «Mia nonna mi ha fatto vedere le foto dell’università in cui le donne indossavano gonne corte, giocavano a calcio, ballavano – racconta Anahita – Vorrei almeno poter essere libera come lo è stata lei».